lunedì 12 aprile 2010

Una Storia

Una storia
Il primo pensiero quando Dino aprì gli occhi fu, avendo tirato su la tapparella della finestra pigiando il pulsante che aveva fatto installare vicino alla testata del letto, che la giornata si annunciava piena di sole, anche se ormai era metà settembre.
E subito si accorse che gli mancava qualcosa. Aveva fatto tutta una tirata di sonno, la temperatura della stanza da letto era giusta, ma qualcosa non andava bene. 
Si era svegliato senza che fosse stato necessario il suono della sveglia, ma non era troppo presto, la sveglia avrebbe suonato tra pochi minuti. Era quasi nervoso. Lo scenario era perfetto, però l’irritazione incominciò a crescere sempre di più. Subito fu chiaro che cosa stonava in quella perfetta sinfonia di fine estate. 
Gli mancava il piacere di aprire gli occhi e accorgersi della presenza di qualcuno accanto.
Sapeva bene che non gli bastava una presenza qualunque, era una, la presenza che desiderava. 
Ma nonostante tutti i suoi sforzi non c’era stato verso di riuscire a convincere Adriana a passare la notte con lui.
Allungò la mano, raggiunse il cellulare e dai contatti selezionò il numero del suo amico detto “Grande Narratore”. Come sempre, lui gli avrebbe suggerito che fare.
  • Ciao.
  • Che succede?
  • Niente, è proprio questo il problema.
  • Cioè?
  • Adriana non mi fila proprio.
  • Che cosa è successo?
Gli raccontò.
Aveva cercato di essere spiritoso, aveva fatto sfoggio di tutte le sue capacità di brillante conversatore, aveva tirato fuori tutta la dolcezza di cui era capace, ma aveva ottenuto, forse, di scatenare in lei un attacco acuto di diabete, ma quanto a convincerla, niente. 
Il massimo cui era arrivato, era stato di tenerla abbracciata con la testa appoggiata sulla sua spalla. 
Siamo amici, aveva detto lei, allontanando la sua mano che accarezzandola sul fianco era risalita fino al lato del seno. Ovviamente lui si era sentito un verme, non voleva darle l’impressione di avere in mente uno scopo erotico. Certamente la desiderava molto, ma non voleva forzare gli eventi, gli sarebbe molto piaciuto che il grande desiderio che aveva di far l’amore con lei, avesse seguito i binari di una naturalezza di eventi che, coinvolgendoli progressivamente, si fossero spontaneamente evoluti in direzione di una reciproca ricerca e soddisfazione di piacere.
Quella frase, invece l'aveva gelato, e bloccato in un rigor quasi mortale.
Lui aveva di lei una concezione di fragilità, che lo obbligava a trattarla sia verbalmente sia fisicamente, come una coppa di vetro soffiato. Aveva quasi paura che dirle o farle qualcosa di appena meno che delicato potesse mandarla in pezzi. Certo questo era in parte, dovuto al fatto che lei si era rivolta a lui, per un parere professionale, medico, giacché era in una grave crisi “esistenziale” dopo che il suo ex l’aveva lasciata di colpo, senza nemmeno una parola.
Ma il suo imbarazzo non era legato a una forma di etica professionale, ma al fatto che, subito, si era sentito coinvolto in un ruolo di tipo protettivo, nei confronti di quella specie di passerotto, smagrito e impaurito, che aveva davanti.
Aveva immediatamente avvertito lo stimolo a occuparsi di lei a ricercare la soluzione che potesse portarla a sorridere alla vita. Quella vita che sembrava non interessarle più. Nel rivederla dopo tanti anni, aveva provato una stretta al cuore, vedendola magrissima, con il volto scavato, gli occhi infossati. Gli era sembrata quasi una con problemi di tipo anoressico.
Parlando, poi si era convinto, che la diagnosi corretta non era né l’anoressia, né la depressione. Più parlavano, più si faceva strada nella sua mente, che fosse una complessa multifattoriale problematica di tipo esistenziale, con un grande coinvolgimento fisico.  Ovviamente, lui sapeva bene che tutto dipendeva dallo scompenso degli equilibri neurotrasmettitoriali, e perciò aveva anche proposto d'iniziare una terapia farmacologica di sostegno e recupero. 
Tutto questo, però, non bastava. Non lo convinceva. C’era qualcosa che non funzionava.
Fu così che continuando a incontrarla, a parlare con lei, si era trovato a esaltare i suoi pregi, le sue qualità.
A furia di dirle che era una bella donna, intelligente, colta, profonda, dolce, attenta, generosa, invece di convincere lei, si era convinto lui. Certo, il suo ruolo “terapeutico” gli imponeva di vedere solo gli aspetti positivi, e di evidenziarli ed esaltarli, ma questo “lavaggio del cervello” ha finito con il funzionare più su lui stesso, che su di lei.
Infatti, eccolo lì, ora, a non avere altro pensiero, altro desiderio, che lei. Non una magia, una strana alchimia, ma un vero e proprio fenomeno di training autogeno, allocentrico, che gli impediva di pensare ad altro.
Incupito da questi pensieri, guardò fuori della finestra quel cielo azzurro che improvvisamente aveva perso il suo splendore e si andò a infilare sotto il getto tiepido della doccia.
Poi, mentre si preparava e beveva il suo tè, il cervello riprese a girare e a macinare immagini, maledettamente monotematiche, e anche quando si sforzava di pensare ai suoi impegni di lavoro di quella mattina, come l’ago di una bussola il pensiero si riorientava verso quel Nord personale con gli occhi del colore delle grotte di ghiaccio che aveva visto nei documentari sul polo nord.
Dove aveva sbagliato? Era stato troppo timido o, invece troppo precocemente esplicito? Aveva troppo presto aperto il suo cuore e dichiarato esplicitamente i suoi sentimenti, o, al contrario, non era stato sufficientemente virile forzando, abbastanza, la situazione.
L’incertezza dell’interpretazione del pensiero femminile, ancora una volta riproponeva un buio fitto da cui non riusciva a venir fuori.
Avrebbe dovuto essere più paziente, e acquattarsi in attesa, come un cacciatore, o interpretare le resistenze come una specie di verginale pudore, e spingere la sua mano verso il reciproco piacere. Ovviamente la risposta non c’era, o almeno lui non riusciva a darsela, ma il risultato rimaneva lo stesso. Come in una legge matematica invertendo l’ordine di fattori il prodotto non cambiava. Lui rimaneva solo.
Il Grande Narratore che di solito gli dava delle dritte fantastiche, questa volta gli disse secco: “Dimenticatela, è una perdente.”
Vestitosi con questo sgradevole sapore in bocca, salì le scale dell’ambulatorio e per un po, finalmente, concentrato sui problemi dei suoi pazienti, passò alcune ore, con una specie di sensazione di leggerezza, che sparì di colpo non appena richiuse la porta alle spalle dell’ultimo paziente. 
Compose un numero di cellulare.
  • Ciao, buona giornata. Come stai?
  • Mah, come al solito ho avuto un brutto risveglio, tanta ansia, ma ora va un pochino meglio.
  • Adriana, ma hai preso le goccine?
  • No, voglio provare a resistere.
  • Benissimo. Che programmi hai oggi?
  • Vado dallo psicologo, come sempre questa sera, e se non sono troppo stanca, quando torno ho un mezzo appuntamento con un’amica.
  • Pensi che ci si possa vedere, non so oggi, domani?
  • No. 
  • Niente spazi per me? Se ce ne fossero potrei venire lì.
  • Non credo, lo sai che tra poco parto e vorrei poter stare ancora un poco con le mie amiche, a cui negli ultimi tempi ho fatto un milione di bidoni.
  • Hai letto la mail che ti ho mandato?
  • Oggi non posso. Forse domani, troverò un computer.
  • Ah! Bé fammi sapere, quando leggerai, cosa ne pensi.
  • Ok
  • Ok, allora cospargiti come al solito.
  • Ok, bacio.
Click!
Questa storia del “cospargiti” era diventata una specie di giaculatoria, che lui le diceva sempre quando si salutavano o a conclusione di un SMS, da quando lei aveva rifiutato un bacio sulle labbra, e lui le aveva detto che se non poteva baciarla lui, le mandava dei baci che lei avrebbe potuto spargere a suo piacere su tutto il corpo. Un’altra delle idiozie adolescenziali di cui si era macchiato in queste ultime settimane della sua vita.
Quando, nei rari momenti di lucidità, ripensava a questi suoi comportamenti da quindicenne attempato, contemporaneamente, si vergognava come un ladro, e si compiaceva di questo stato di perenne ubriacatura.
Cazzo, Dino, devi correre a fare la spesa, altrimenti che cucini oggi per tuo figlio?
Corsa per le scale, macchina, supermercato. Per fortuna l’Ipercoop fa orario continuato. 
Corsia delle verdure, rucola, corsia della carne fettine sottili per il carpaccio di vitello. I limoni ce li ho. Il grana, pure, l’antipasto è ok. Corsia della pasta fresca, tortellini alla carne. Il burro e la salvia ci sono. Il primo è sistemato. Rapido dietrofront, alla corsia delle carni, il macinato per il polpettone di questa sera, a momenti lo dimenticavo.
Appena entrato in casa, dovette difendere la spesa dalle effusioni di Juan, il cane che come al solito appena apriva la porta di casa, gli saltava addosso coprendolo di leccate e piccoli morsi affettuosi, spazzando l’aria con la coda, per manifestare tutto il suo amore canino, e la felicità di rivederlo.
Rapida corsa in bagno e lavate le mani si passa alla preparazione del pranzo.
Appena rientrato Ugo dai suoi giri con gli amici, approfittando di questi ultimi giorni prima della ripresa della scuola, servì il pranzo e poi riposti piatti, bicchieri e posate in lavastoviglie, si sedette davanti al suo I-Mac, regalo di Ivan, suo figlio maggiore.
Aprì la connessione ad Internet, la cartella di posta e andò alla “Posta Inviata”. C’erano quattro messaggi con l’indirizzo di Hotmail di Adriana.
Li aveva spediti negli ultimi giorni, da quando lei gli aveva dato il suo indirizzo di mail.
Cliccò sul più vecchio, il primo che le aveva mandato. E sullo schermo, dopo aver aperto il file allegato si configurò il testo in formato Mac-Word.
“Carissima,
sono in un insolito momento senza figli, pazienti, o altra compagnia e mi è venuto spontaneo usare la tastiera per mettere nero, anzi blu su bianco i miei pensieri. Come se fosse una cosa naturale, questi hanno preso subito la tua direzione. Ho incominciato a sentire la tua mancanza e la tua presenza contemporaneamente. La tua presenza nei miei pensieri, nei miei sensi. Il tuo “bulgari” al tè bianco, nel mio olfatto immaginario. Il grigio-azzurro dei tuoi occhi alla mia vista. La morbidezza della tua pelle sotto i miei polpastrelli. Il tuo sussurro nelle mie orecchie. E la tua assenza per dare un senso unico a tutto questo. 
Mi si avvicina Juan e vuole giocare e mi ritorna in mente il suo atteggiamento nei tuoi confronti. Ti ha riconosciuta, come ti ho detto, come sua regina del branco, perché ti ha visto con me, e per lui questo, nella sua logica semplice, significa che sei la mia compagna, appunto, la regina. Beata semplicità. Sapesse come tutto è maledettamente complicato.
Sei regina a senso unico. Io vorrei che fossi Regina, tu no, vuoi un ruolo di secondo piano e basso profilo.
Ma preferisco non pensare al “Grande Rifiuto”.
Mi piace pensare al piacere che provo a stare ore a parlare con te.
Tu fai spesso confronti con il tuo “ex”, questa volta ne faccio uno io. Un motivo dei tanti della frana Maria è stato che parlavamo poco. Non riuscivo a trovare argomenti comuni, e per un parolaio come me, era come se mi avessero tolto l'ossigeno dall'aria che respiravo.
Con te parlo, e mi piace, di tante cose, di te, di me, di musica di letture, di sensazioni, di medicina, di neuroscienze, del clima, del rumore del vento, delle lune, delle stelle, delle tradizioni popolari, di cucina e potrei andare avanti ancora.
Abbiamo parlato di gay, di droghe, di sesso, non c'è un argomento off limits o che fosse poco interessante. Anzi spesso da un discorso si finisce a un altro senza chiudere il precedente, perché non c'è il tema da chiudere, ma il piacere di comunicare e di ascoltare l'altro.
Anche ora sto passando da un tema all'altro senza una coerenza, senza la necessità di sostenere e dimostrare una tesi.
Scrivo per riempire quel canale di comunicazione che ho cercato di aprire e mantenere aperto.
Per piacere, puro piacere.
Vorrei avere mille occasioni per averti con me e parlarti e soprattutto ascoltarti. La mia psicoterapia spicciola da bar. Che mi riempie. Che a volte mi fa accelerare il battito, ma che sempre mi fa “emozionare”.
Mentre scrivo la parola “sempre” mi prende una stretta al cuore perché mi esplode nella mente il pensiero che tra pochi giorni te ne torni a Torino. 
Devastazione ideatoria.
Non riesco a pensare a nient’altro.
Un tonfo al cuore un nodo allo stomaco.
Come posso non vederti più?
Come faccio a non guardarti più negli occhi.
Come faccio a non vederti dondolare sull'amaca.
Come faccio a non “grattugiarti” la testa.
L'emozione cosa o chi mi susciterà qualcosa di appena paragonabile?
Pausa.
Arriva un tuo SMS.
Ti chiamo, ti sento per telefono, ti parlo.
Mi dici di nuovo un “NO”!
Faccio battute ti sento sorridere. Sono contento.
Mi dai la tua mail. Ti mando, così, a caldo, queste cose che ho scritto.
Chi sa quando le leggerai.
Per ora un bacio... continua... ”
Il cuore, rileggendo, ebbe un’improvvisa accelerazione. Chiuse quella schermata.
Aprì la cartella “documenti” e quindi il file “Adriana” che lui aveva scritto stampato e messo in busta consegnandoglielo a mano il sabato precedente. Voleva riaprire un contatto con lei dopo che avevano avuto una litigata via SMS perché non si erano potuti vedere il sabato ancora precedente, e lui era stato preso da un vero attacco di gelosia verso l’amica con cui lei era andata al mare. Poi le aveva telefonato e, sudando le proverbiali sette camicie aveva chiesto scusa, andando a trovarla le aveva consegnata la lettera.
Sullo schermo apparve il testo di quella lettera.
“Carissima,
ti scrivo queste poche righe perché non mi permetti di parlarti.
Non so di quale orrendo delitto mi sia macchiato, tanto da essere condannato al silenzio, all’esilio e forse alla fucilazione.
Ammetto di aver avuto un comportamento adolescenziale, per cui, mi sono fatto travolgere da un sentimento, un’emozionalità, una passione, che non sono ammissibili, per età reale e ruolo sociale. Perciò accetto la condanna e il vituperio, crocifiggetemi. 
Chi sono, io, per poter trasgredire, così tanto? 
Come mi posso permettere di provare sentimenti, emozioni? 
Certo Jack lo squartatore aveva una sua morale, ed è finito eroe di romanzi e film, io no.
Con quale assurda motivazione mi sono permesso di offrirmi anima, cervello e resto del corpo, per far nascere un sorriso? Quale presunzione, mi animava, incosciente, nel voler offrire “piacere”?
Allora, che sia silenzio.
Non sono degno di una risposta alle chiamate, ai messaggi. 
Anzi, suggerirei una condanna per “stalking”, già, è proprio una persecuzione, volerti vedere sorridere.
Se non è reato è almeno una rottura di palle. E ai rompi palle non bisogna dare spazio e confidenza. Meglio ignorarli. Che si cuociano nel loro brodo.  Magari a fuoco lento.
Con quale miopia ti ho scambiata per una persona, aperta, e priva di bigotta coartazione, perché ho potuto pensare che fossi disposta a interagire con gli altri. No. 
Draconianamente rinchiusa nel bozzolo della autocommiserazione /punizione, non è consentito l’accesso a nessuna mano tesa. 
E se uno ti vuole bene? 
Che taccia! 
Dal buio del mio 41bis, continuo ad accendere a intervalli Morse, una lucina, che trasmette, nella folle speranza che un’intelligenza capti prima o poi il segnale, che capisca.
Qui terra a voi spazio, siamo amici... rispondete.
Deliro.
Come può il mio Led sfidare il caso, il tempo, lo spazio, il linguaggio, la disponibilità?
Ma punti e linee e di nuovo punti s’inseguono nel folle tentativo di comunicare, disponibilità, emozioni, informazioni.
Anche questo scritto è follia, presuppone che chi non vuole leggere, intenda, e verosimilmente sarà cestinato senza neanche uno sguardo.
Ma noi attempati adolescenti, siamo folli, e non ci smentiamo.
Mi piacerebbe avere capacità letterarie, per convincerti a concedere le attenuanti generiche, che mi evitino il Trattamento Sanitario Obbligatorio, ma non ne ho, ho solo con me la scatola del tè che avevo promesso di servirti.
Un sincero abbraccio
Dino”
Questa gliel’aveva stampata e data a mano quindi lei, l’aveva letta, le mail non ancora, ed era curioso di sapere che reazioni avrebbe avute. Perciò prima al telefono, le aveva chiesto se avesse avuto modo di connettersi a internet. 
Doveva aspettare.
Con la lettera e le scuse era riuscito a riaprire un canale di comunicazione, niente di più, ma già era contento che il filo del loro rapporto non si fosse reciso. Che cosa sarebbe successo con la posta elettronica?
Rileggeva il testo della lettera sul monitor, e sorrideva, quasi compiaciuto, e sicuramente divertito da alcuni passaggi.
Con malcelato orgoglio trovava molto divertente la frase del messaggio Morse con la lucina agli alieni. Ovviamente lei, invece di soffermarsi sul trattamento di carcere duro, il così detto 41 bis, si era risentita del termine “bigotta” e ci sono voluti fiumi di parole per spiegare che era riferito all’atteggiamento di chiusura a priori, e non voleva essere offensivo. 
Ora si era spinto oltre, e la seconda mail era sicuramente più esplicita. Ritornò sulla casella di posta inviata e cliccò sulla seconda mail.
“Un patetico messaggio in bottiglia
Perché non mi telefoni?... No, il titolo letteralmente è “why don’t call me” vale a dire “perché non mi chiami?” che in italiano può significare “perché non pronunci il mio nome?” e l’album che sto ascoltando continua “do something” “fai qualcosa”. E penso a te! Mi trovo a sognare che mi chiami che fai qualcosa ...per me. 
Mi sento improvvisamente vecchio, troppo per te! Ma è proprio questo il fascino della situazione, in cui mi trovo, innamorato di una ragazzina che mi trascina in un vortice mentale d’adolescenziale incoscienza, a comportarmi da quindicenne: i messaggini, i bigliettini, gli sguardi improvvisamente languidi, teneri. Il desiderio di sfiorare una mano, la curiosità di scoprire il disegno di una spalla. L’uomo navigato che guida i novantenni, che incespica nelle parole, il suo principale strumento di lavoro. Il comandante che non ha più idea della direzione della sua rotta. 
E allora divento duro, rigido, cattivo e ti dico addio, che il nostro rapporto finisce qui! E inciampo nei miei propositi e nei passi per allontanarmi da te e dal ridicolo. E non posso fare a meno di averti vicino, di pensare a come potrei prendermi cura di te, alle coccole che ti vorrei fare, se me lo permettessi. 
Ma sono troppo vecchio improvvisamente, per te. Solo per te, dannazione. Prigioniero di un circolo vizioso per cui se non fossi come sono non ti potrei avere con me, ma per questo stesso fatto non posso averti per me! Ci sono un casino di donne che mi vorrebbero perché so essere dolce e tenero, perché ho esperienza, perché so dare piacere lungo e raffinato, ma non so che farmene. Sei tu il colpo allo stomaco che mi ha messo KO. E allora affido a un foglio il mio grido nel deserto, a una bottiglia in mare, il mio messaggio. Quante saranno le probabilità che la risacca lo porti proprio ad arenarsi nel tuo cuore? Già ma, perché non dovrebbe accadere lo stesso miracolo che ti ha portato, proprio te, proprio da me? Odio parlare d’amore, figurati scriverne, e allora che faccio? Scrivo un giornale di bordo per raccontare il mio viaggio nella confusione mentale che mi ha assalito, al momento in cui le mie navigazioni nella vita sembravano filare nella calma piatta della tranquilla serenità delle routine di tutti i giorni. Ecco il mare che si agita come i tuoi capelli, quando scuoti la testa. Già anche la mia settimana è sconvolta. I giorni più odiati sono attesi con ansia perché significano presenza, dopo la mancanza. 
Fine dell’apnea, si torna a respirare! 
Continua ... ?”
Qui si era spinto davvero su un terreno pericoloso, e quando lei l’avesse letta questa mail poteva sciogliere le sue resistenze o affossare tutto definitivamente. Rileggendo, ora, si rese conto che affermare di essere troppo vecchio per lei era veramente rischioso. Innanzi tutto poteva confermarle che il problema esisteva. Si sarebbe morso le dita che avevano scritto questo, ma ormai era fatto. Sicuramente avrebbe faticato a far chiarezza sul fatto che è proprio grazie alla differenza di età che sono incontrati. A lui questa cosa era chiara, e l’aveva scritto ma, sarebbe stato in grado di farne capire il senso a lei? Adriana era una donna molto perspicace, ci si poteva sperare, che capisse il motivo di quell’affermazione. Se smettesse di scrivere di getto e rileggesse quanto scritto, forse si sarebbe potuto risparmiare anche questo dubbio. Altro punto che poteva risparmiarsi, il riferimento alle donne che lo vorrebbero. Come la prenderà? Penserà a millantato credito, penserà che sia un puttaniere, farà riferimento a situazioni reali che conosce, figurati se non penserà a Maria. Altro dubbio. Riuscirà a cogliere il senso della disponibilità esclusiva nei suoi confronti? Cazzo, poteva essere più chiaro! 
Però il riferimento al desiderio sconvolgente di lei era chiaro. Sortirà risultati? Ormai stava facendo una revisione completa della sua personale letteratura e quindi chiuse questa mail e aprì, la successiva.
“Sento freddo!
Cerco un calore, ma, senza la tua presenza non riesco ad assorbire tepore.
Mi appoggio allo schienale della poltrona e chiudo gli occhi. La testa si affolla d’immagini. I tuoi capelli mi riempiono lo sguardo virtuale. Lunghi, di seta provo a toccarli, nella mia immaginazione, come in un viaggio 3D, mi sembra di poterli sfiorare, il battito cardiaco accelera mentre passo a sfiorarti sulle spalle, sul collo, e risalendo, con il dorso delle dita sulle tue guance. I miei occhi si perdono nei tuoi, mentre una musica alla Mark Knopfeld riempie le mie orecchie, dolce e ritmata nello stesso tempo. Si mescolano immagini di verdi colline che si tuffano in mare di smeraldo con il profilo dei tuoi fianchi. Le tue gambe snelle e scattanti mi provocano un brivido lungo la schiena e nello stesso tempo m’infondono una sensazione calda.
Mi perdo in un vortice d’immagini e sensazioni, fino a imperlarmi la fronte di sudore, devo fermarmi e aspettare che la realtà da virtuale diventi vera. Aspetto. Ti aspetto. Aspetto.
D.”
Qui la chiarezza era totale. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, e quando avesse letto questa non c’erano possibilità, o dentro o fuori! Già e se avesse scelto ancora una volta per il no? Fu colto da una specie di attacco di panico. Forse era stato troppo drastico, perché imporre una scelta tra il sì e il no? Perché non essere più attendista dare ancora spazio a scelte intermedie? Certo, forse, sarebbe stato più saggio, ma ormai lui era sopraffatto dall’ossessione della sua imminente partenza. Non c’era più tempo, questa consapevolezza l’aveva già espressa una volta quando le aveva detto che non voleva, avere il rammarico di aver iniziato quella che lui sperava sarebbe stata la “loro storia”, troppo tardi, avendo sprecato occasioni di momenti di piacere vissuto insieme.
Ecco ritornare il tema del tempo. Il tempo visto come sprecato se non vissuto, insieme, ma anche il tempo come differenza d’età, e ancora il tempo come ambito in cui muoversi, e di cui rimaneva sempre minor quantità a disposizione.
Due
Dopo aver lasciato lo studio, avendo terminate le visite dell’ambulatorio pomeridiano, si avviò, a piedi, verso casa. Non doveva fare domiciliari, e poteva rientrare.
Infilò la mano nella borsa e ne estrasse il cellulare. Si fermò un attimo per richiamare l’ultimo numero, e mentre pigiava sul tasto col simbolo verde del telefono, gli passò per la testa, che in quelle ultime settimane aveva fatto più ricariche che nell’ultimo anno. 
Squilli.
  • Buona sera.
  • Ciao
  • Come stai?
  • Come sempre la sera, meglio.
  • Che hai fatto oggi pomeriggio?
  • Ho letto un po’.
  • Cosa?
  • Yoshimoto
  • Non mi piace tanto, Banana. Troppo giapponese, per i miei gusti. Che libro?
  • “il corpo sa tutto”.
  • Non lo conosco, assomiglia al titolo di un romanzo di Grossman. “Col corpo ti capisco”!
  • Ti ho detto che non ho mai letto Grossman.
  • Sì era l’assonanza dei due titoli, che mi ci aveva fatto pensare, e poi ti ho detto che Grossman ha sempre dei titoli, per me bellissimi. Ad esempio quello che ti ho già citato: “Cercami alla voce Amore” oppure “Che tu sia per me il coltello”!
  • Già. Ma io non ho tutta questa cultura che tu credi, specie in letteratura dei nostri giorni, questo che sto leggendo me l’ha indicato un’amica.
  • Ti farò leggere qualcosa di meglio, allora, almeno di più occidentale. Hai letto “sostiene Pereira” di Trabucchi? È bellissimo. Oppure Baricco, o la trilogia di “Millenium” di Stieg Larsson. Poi che hai fatto?
  • Sono uscita con Maria Luigia.
  • Ah, bene, che programmi hai per i prossimi giorni?
  • Non so. Ho qualche mezzo appuntamento e devo andare dal parrucchiere, non ci sono mai andata tanto quanto in questo periodo. Non ho voglia di lavarmeli da sola.
  • C’è qualche spazio per me? Ci possiamo vedere? Altrimenti questo fine settimana non vengo in campagna.
  • Verresti solo se ci possiamo vedere?
  • Già
  • C’è sempre un posticino per te, naturalmente.
  • Ok, allora vengo venerdì sera.
  • No, venerdì vado dallo psicologo e poi non so.
  • Allora vengo sabato.
  • Ok. Allora ci vediamo sabato pomeriggio.
  • Va bene. Buona notte, e … cospargiti!
  • Va bene, buona notte.
Click!
Appena chiusa la comunicazione pensò che anche questa volta aveva collezionato qualche “no” e riprese il cammino verso casa.
Appena entrato nell’appartamento, salutato Ugo ed essere sopravvissuto alle effusioni del cane, dopo una breve sosta in bagno, entrò in cucina.
Aperto il frigorifero ne estrasse il pezzo di filetto di vitello per la cena. Lo poggiò sul tagliere, ne ricavò quattro fette spesse tre centimetri e mise sulla fiamma del fornello più grande la piastra di ghisa. Dopo qualche minuto vi sparse sopra un po’ di sale, e appena vide sollevarsi qualche quasi impercettibile filo di fumo, che indicava che si era raggiunta la giusta temperatura, dispose le fette di carne a cuocere. Controllò che il fuoco fosse ben forte, per creare la leggera crosta che serviva a trattenere i succhi del filetto e prese dal mobile una sperlunga di ceramica per posare la carne appena fosse cotta. Andò sul balcone e raccolse qualche rametto di rosmarino dalla pianta che coltivava per averne sempre fresco, a disposizione. Li passò sotto il getto d’acqua del lavello della cucina e li depose sul fondo della sperlunga. Salò le fette sulla piastra e subito le girò in modo che rosolassero anche dall’altro lato. Mise delle fette di pane cotte al forno a legna di un panificio di Altamura, a riscaldare a bassa temperatura nel microonde e controllato lo stato di perfetta bronzatura della carne la dispose nel piatto. Versò un filo d’olio extravergine di oliva e irrorò la carne con crema di aceto balsamico di Modena. Coprì il piatto con un foglio di alluminio perché il filetto s’insaporisse e avviò il forno a microonde.
  • Ugo, a tavola! Porta le cose da bere, dai, amore, spegni il computer.
  • Subito Papi.
  • Ti sei lavato le mani?
  • Vado subito.
Questo era un periodo in cui dopo tanta fatica Ugo aveva superato le difficoltà della scuola ed era molto sereno, e stranamente, subito ubbidiente. Quanto era stato duro il periodo dopo il divorzio. Ora erano undici mesi che stava con lui, e non ostanti le sue insistenze, in pratica si rifiutava di vedere la madre.
Il pomeriggio di sabato si mise in macchina subito dopo pranzo. La lasagna era riuscita perfettamente. La cosa fondamentale era stata la preparazione del sugo. Aveva tritato le verdure per farle dorare nel fondo d’olio extravergine d’oliva che aveva versato nella pentola. Quindi aveva aggiunto il macinato di vitello e maiale e lo aveva fatto soffriggere a lungo. Dopo aver aggiunto il vino rosso e averlo fatto sfumare aggiunse la passata di pomodoro che aveva, come ogni anno fatta personalmente in estate, secondo la tradizione tipica pugliese. La salsa aveva sobbollito a lungo fino a ridursi di almeno un terzo del suo volume. Imburrata la teglia aveva versato sul fondo tre mestoli di sugo poi aveva sistemato il primo strato delle lasagne fresche all’uovo, e di nuovo cosparso la salsa, il formaggio fresco e il parmigiano grattugiato, aveva ripetuto quest’operazione per tre altri strati di pasta e sull’ultimo dopo il condimento e il parmigiano aveva steso un bello strato di besciamella. Quaranta minuti di forno a centosettanta gradi e il pranzo era pronto.
A cinque chilometri dal trullo squillò il telefono.
  • Pronto?
  • Ciao
  • Ma dove sei?
  • All’ingresso del paese. E tu?
  • Sono davanti all’ingresso di casa tua, ma tu non ci sei.
  • Arrivo tra due minuti.
  • Ok ti aspetto
Click.
Tre minuti dopo stava aprendo la sbarra che chiudeva l’accesso al viale d’ingresso al trullo, Adriana era in macchina occupata a parlare al telefono.
Parcheggiarono nello spiazzo e mentre lui apriva la porta lei continuava la sua telefonata. Quando chiuse la comunicazione lui si avvicinò e si salutarono baciandosi sulle guance.
  • Ciao come stai? Ti vedo bene.
  • Abbastanza. Avevi da fare? Come mai sei in ritardo?
  • Io sono sempre in ritardo.
Intanto entrarono nel trullo.
  • Sono stata a pranzo da Maria Luigia
  • Bene
  • Lo sai che ho preso quasi un chilo in questi giorni?
  • Il mio occhio clinico non percepisce i milligrammi.
  • Vedi ho quasi la pancetta, prima qui era tutto scavato.
Nel dirlo si tirò su il top bianco fin sopra il reggiseno anch’esso bianco che indossava, scoprendosi la pancia.
  • Vedo e mi piacerebbe vedere di più.
  • Non essere stupido!
Disse ricoprendosi subito.
  • Non voglio che la nostra amicizia sia messa in pericolo perché tu vuoi qualcosa che io non posso darti.
  • Ma chi l’ha detto che io voglia qualcosa che non puoi o non vuoi darmi, io sono molto contento di come sono andate le cose tra noi. Il nostro rapporto, così difficile è stato comunque bello. 
  • Ma tu vuoi di più, io non ho il trasporto nei tuoi confronti che tu provi per me. Il nostro rapporto è sbilanciato.
  • Dove sta scritto che i rapporti devono essere bilanciati? Anzi dimmi dove si è visto mai un rapporto di coppia bilanciato. L’amore bilanciato non esiste.
  • Forse è vero, ma io non provo quello che provi tu e mi dispiace che tu possa soffrire.
  • Perché dovrei, io sono contento. Se non fossi stato stravolto da questa insania adolescenziale ci saremmo visti due o tre volte, quando tu avessi avuto bisogno di una consulenza, ti avrei parlato, magari prescritto qualcosa e via. Invece così siamo stati ore a parlare, a raccontarci di tutto, a ridere, a provare gioia e persino dolore. È stato un periodo intenso, vissuto.
  • Ci siamo detti anche cose che hanno fatto male, mi hai dato della “bigotta”, in alcuni momenti la mia ansia è aumentata. 
  • Certamente ma, il nostro rapporto, proprio per questo non è stato piatto.
  • Tu sei stato persino duro.
  • Mi sarebbe piaciuto, averlo duro con te – disse ridendo – il carattere, ovviamente!
  • Sei uno tosto tu.
  • Certamente e questo mi ha causato sempre tanti problemi, è molto più facile essere molli come budini, ci si adatta e si tira avanti, ma in modo piatto e io, non ne sono capace, preferisco gli alti e bassi, i sapori decisi, e ne pago il prezzo.
Tre
Stesi sul divano-letto del trullo, erano abbracciati teneramente.  Adriana stava con la testa appoggiata sul petto di lui, che l’ avvolgeva all’altezza delle spalle mentre parlavano. 
  • Quanto mi piace tenerti così, avvolta, mi sembra di proteggerti, non so da cosa forse da te stessa.
  • Già mi sento tranquilla, e così mi metto in gioco, non so se faccio la cosa giusta, però.
  • Sono certo che sia la cosa giusta, e vorrei che il nostro rapporto fosse innanzitutto ludico. Il piacere del piacere.
  • Va bene ma non spingiamoci su un territorio in cui il gioco può essere difficile da reggere e che potrebbe fare male.
  • Ma io voglio giocare, e non m’importa se c’è il rischio di farsi male, il bello è giocare.
Mentre diceva così la sua mano dalla spalla, lentamente scese sul fianco per poi risalire sul lato del suo seno.
  • Voglio giocare con te.
  • Io non posso darti quello che vuoi.
  • Che ne sai di quello che voglio? Io, e cito Marquez, non ti amo per chi sei, ma per chi sono io, quando sto con te!
Incominciò a carezzarle il seno e lei lo guardò fisso negli occhi con uno sguardo gelido, quasi di sfida. Lui non smise, e notò che piano, il ghiaccio di quelle iridi s’incominciava a stemperare.
Le dita progressivamente percorrendo la circonferenza di quel seno, piccolo, s’infilarono sotto il ferretto alla base della coppa del reggiseno e incontrarono un capezzolo largo e leggermente turgido. Incominciò a sfiorarne la punta con delicatezza. Il ghiaccio si stava trasformando in un profondo, azzurro laghetto. L’altra mano, raggiunse il fianco, e con un lento movimento si spostava centralmente su quella pancia appena rilevata che per un attimo, aveva guardato poco prima. Mentre continuava questa lenta marcia, i loro volti si fronteggiarono quanto bastò a posare le sue labbra su quelle di lei. 
Le poche donne con cui aveva avuto una storia avevano, tutte, concordato sulla morbidezza delle sue labbra e questa consapevolezza lo rese intraprendente quel tanto che bastava a premerle su quelle di Adriana un po’ più intensamente finché anche lei si decise a socchiudere le sue.
Mentre la mano scivolava dall’ombelico verso il basso fino a, infilandosi sotto il bordo dei jeans, carezzarle i peli pubici, il battito del cuore si fece un po’ più rapido, e un’intensa pressione incominciò a svilupparsi nei pantaloni.
Il profumo al tè bianco di Bulgari, inondava le sue narici, mentre il contatto con la realtà circostante diventava sempre più labile. 
Mentre le sue mani sul seno e sul pube cercavano sensazioni e tentavano di provocare piacere, quelle di Adriana che finora gli aveva carezzato la spalla, si portarono sui bottoni della camicia e incominciarono ad aprirla. Dino ormai a torso nudo fece dei movimenti rapidi che la liberarono del top e del reggiseno.
Si sollevarono e si sfilarono vicendevolmente i pantaloni, e di nuovo stesi continuarono a carezzarsi a lungo su tutto il corpo finché lui inginocchiandosi non le fece scivolare via il perizoma e affondò la faccia tra le sue gambe rimanendo a lungo ad assaporare la sua femminilità, provocando piccoli gridolini, che suonarono come un crescendo di bolero nelle sue orecchie.
Quando dopo molto tempo, aveva quasi male ai muscoli della lingua si tirò su e poggiandosi sul suo corpo entrò finalmente con tutto se stesso dentro di lei e fecero l’amore per un tempo indefinito. Quando furono al culmine del piacere ebbero un orgasmo simultaneo. 
Quasi fosse stato concordato, nelle vicinanze qualcuno stava festeggiando e si sentirono, davvero, i colpi di fuochi d’artificio. 
Si guardarono e risero fragorosamente.
Quattro
Il suono ossessivo della sveglia gli martellò i timpani e il cervello che fu costretto a riprendere il controllo del suo stato di coscienza. Era piuttosto sudato e il suo sguardo cercò la spia verde del condizionatore per capire perché non stava funzionando. Era accesa. Allora funzionava, e allora perché era sudato? Adriana. Non c’era nessuno al suo fianco. Aveva sognato. Non aveva fatto l’amore con lei. Non era mai stato fra le sue gambe, dentro di lei. Non aveva avuto alcun orgasmo. 
Cazzo. 
Era tutto uno stupido scherzo della sua fantasia onirica. 
Lei a quest’ora stava scendendo dal treno che la riportava a settecento chilometri da lui. Stava tornando alla sua vita di sempre. Quella vita che, di nuovo, faceva a meno di lui. Che cosa restava del loro rapporto? Già, quale rapporto? Quello che lui si era sognato, o quello che lui aveva desiderato, o quello su cui lui aveva fantasticato per due mesi, o quello che lei aveva sempre bloccato a livello di amicizia di basso profilo?
Forse si sarebbero sentiti in brevi telefonate di formale circostanza, ma niente possibilità di contatti ravvicinati, la loro storia era finita senza essere mai iniziata. 
Che peccato! 
Sentiva di aver sprecato un’occasione, unica, di poter mettere se stesso, in gioco. Di poterle offrire un cuore, un cervello, un sesso, in sintesi un uomo, che voleva giocarsi la vita per lei. 
Il suo rifiuto gli pesava, come un macigno, sul petto, gli toglieva il fiato. Non riusciva a provare rancore. Delusione, quella sì. Delusione per non essersi meritato a sua attenzione. Delusione per essere stato rigettato nella sua quotidianità, senza la propulsione che aveva caratterizzati questi ultimi due mesi. 
Niente più slanci adolescenziali, niente più sogni ad occhi aperti e chiusi, niente più pensieri polarizzanti il suo fare. Persino banali canzonette avevano il potere di richiamare l’idea di lei. Era successo due giorni prima quando una stupida canzone priva di senso, aveva attirato la sua attenzione solo perché parlava di un “maledetto ciao”. Quello che le avrebbe dovuto dire di lì a poco. Tutto in quei due mesi aveva fatto riferimento a lei. Adesso la sua navigazione non era più guidata, non c’era più una bussola che segnasse un nord. Intorno, un mare piatto, incolore, come in una giornata d’inverno senza sole e senza i colori della tempesta. Le vele pendevano immobili ed inutili, senza portare da nessuna parte. 
Gli venne l’impulso automatico di richiamare il nome di lei, sulla rubrica del telefonino per raccontarle il successo della sera precedente della sua “tartare di tonno”, ma il gesto si bloccò sul nascere. Che senso aveva ormai raccontare della perfetta riuscita della mescolanza dei sapori che aveva ottenuto con l’aggiunta alla ricetta tradizionale al limone, dei chicchi di melagranata. Il suo continuo, pedissequo racconto, tipo radiocronaca, aveva senso quando cercava di farle vivere spicchi della sua vita, ma adesso, che significato poteva avere tutto ciò. 
Le aveva dato cose che dovevano coinvolgere tutti i suoi sensi, immagini, suoni, odori e fogli di cartoncino con nastri da toccare, per farla entrare nella sua vita. Lei, invece di immergersi aveva fatto snorkeling su di lui, rinunciando al l’autorespiratore che le aveva ossessivamente proposto. Questo aveva affondato la possibilità di un amore e dubitava che sarebbe servito a far emergere una vera amicizia, come lei sosteneva. 
Si sarebbe visto col tempo. Proprio il tema del tempo, che ancora una volta tornava, era quello che lui sentiva sfuggire e che gli creava, in quel momento, un senso di vuoto.
Andò nello studio e si sedette al computer, fece click sull’icona della posta elettronica e incominciò a digitare:
“Carissima, 
ti scrivo questa mail, per raccontarti il mio stato d’animo, dopo una notte caratterizzata da sogni strani e agitati. Ho sognato di nuovo, di fare l’amore con te. E mi sono svegliato trovandomi solo, con la consapevolezza di averti perso, temo per sempre. Quello che mi addolora, del tuo rifiuto, non è la certezza che non saremo mai una coppia, che non sarò mai il tuo uomo. Mi addolora, che tu non mi abbia permesso di vivere questo sogno. Sapevo che probabilmente, non si sarebbe mai concretizzato, ma non ostante questo, continuavo a sperare, e questo, mi consentiva, come ti ho detto mille volte, di essere felice. Felice di sentirmi, innamorato, felice di avere qualcuno a cui dedicare ogni pensiero e ogni gesto della mia giornata. Felice di provare le emozioni di un’adolescente, a dispetto dell’età anagrafica. Felice di fare le telefonate, appena sveglio, o prima di addormentarmi. Felice di sentire la tua voce e cercare di capire come stavi. Felice di inventarmi una storia da raccontare. Felice di preparare un pranzo per poterlo descrivere, nei dettagli di sapore e colore perché tu potessi gustarlo come se fossi qui. Felice di farti partecipe delle mie emozioni. Felice di raccontare spicchi della mia vita, per viverla con te, anche a distanza. 
Il tuo rifiuto di avere anche un briciolo di possibilità, il tuo manicheo bianco o nero, ha spezzato quell’esile filo e mi ha ricacciato in un nulla senza appello, che come un buco nero ha risucchiato tutta la luce di questi ultimi mesi. Ed è subito stato il buio. 
Non credevo di chiederti troppo, lasciandomi vivere la mia fantasia. Hai detto che ti creavo disagio, ma per cosa? Non ho fatto violenza a nessuno, sognavo e raccontavo il mio sogno. Bastava che dopo il click che chiudeva la telefonata ti scordassi di me, e io potevo continuare ad essere felice. Il mio fidanzamento unilaterale e a distanza poteva continuare a vivere, invece, hai scelto l’eutanasia di questo amore. Il tuo “mai” gli ha tolto l’ossigeno.
Un’ultimo straziato bacio.
D.”
Stava per fare click sul pulsante di invio della mail, ma si fermò, che senso aveva mandarle quella mail? La salvò in bozza, e spense il computer. 
Addio.
Una doccia calda e un buon caffè. 
Si ritornava ai problemi dei pazienti, la propria vita slittava in fondo alla lista delle priorità.
Il Grande Narratore aveva avuto ragione di nuovo.